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SASSARI. La lapide di marmo che da sempre osserva il passaggio di atleti di ogni risma è probabilmente l’unico pezzo originale dell’epoca. Tutto il resto, però, si trova esattamente nello stesso posto da esattamente cento anni: la posizione del terreno di gioco e delle porte, orientate da nord a sud, la collocazione della tribuna centrale, lato ovest, e persino il viale di accesso. Sono identici soprattutto i colori, rossoblù, delle maglie della squadra che da un secolo gioca le sue partite su quello stesso campo.
Un secolo rossoblù. Dal maggio 1921, al maggio 2022: il campo della Torres, ovvero lo stadio “Vanni Sanna” ha compiuto cent’anni. Un caso più unico che raro di longevità, fedeltà e di identificazione tra una realtà sportiva e la sua casa. Che assume un rilievo ancora maggiore se si considera che in quell’impianto si sono svolti eventi di grandissima importanza a 360 gradi, non solo a livello calcistico.L’inaugurazione. Il 27 maggio 1922 era un sabato, e per l’inaugurazione della nuova struttura la società sassarese fece in modo di far corrispondere l’evento con la visita in città dell’erede al trono, il principe Umberto di Savoia. Fu proprio lui a tagliare il nastro del campo, sul quale poco dopo si affrontarono in una partita di calcio le squadre della Torres e i militari del 45° Fanteria, di stanza in città. Il futuro Re di maggio assistette al saggio di 200 ginnasti e al primo tempo del match, poi si spostò verso il centro cittadino per altre visite istituzionali.
La lapide. Esattamente un anno prima, suo padre Vittorio Emanuele II aveva presenziato alla posa della prima pietra di quella piccola grande follia pensata dai dirigenti della Torres, ovvero la creazione di un campo privato, e nell’occasione era stata scoperta una lapide con i nomi degli atleti torresini caduti sul fronte durante la Grande guerra. Trentaseimila giorni dopo, quella lapide è ancora lì a dare il benvenuto agli atleti che si accingono a entrare negli spogliatoi.
Lungimiranza e concretezza. La Società Educazione Fisica Torres era nata nel 1903 e dall’anno successivo si era accasata in un’area periferica nel futuro quartiere Porcellana, rimodellando il capannone della falegnameria come palestra e allestendo il proprio campo polisportivo all’aperto. Ginnastica, atletica, podismo, ciclismo, scherma e football erano le discipline più praticate dai rossoblù, che hanno continui rapporti con le cagliaritane Amsicora ed Eleonora d’Arborea e si sono fatti conoscere e rispettare anche oltre Tirreno con atleti di primo piano come Federico Oggiano. Nei primi anni Venti però arriva lo sfratto: sull’area in cui si trova il campo della Torres sta per essere costruito il Policlinico. I dirigenti non fanno una piega, si mettono alla ricerca di alternative e trovano in zona Molino a vento, alla periferia opposta, un terreno che fa al caso loro: i proprietari, una famiglia di Nulvi residente a Milano, fanno un prezzo di favore, ma fanno inserire nell’atto di acquisto una clausola che farà la differenza negli anni a venire: il terreno non dovrà essere cementificato e potrà ospitare esclusivamente impianti sportivi. Affare fatto, dicono i dirigenti torresini: che mettono sul piatto 80 mila lire, ovvero quasi tutto ciò che c’è in cassa, e vanno alla ricerca di qualche aiuto esterno per portare avanti i lavori.
Un piccolo miracolo. Fa abbastanza impressione, oggi, pensare a una piccola società di provincia che nel 1920 e rotti decide di costruire il proprio stadio polisportivo. Da questo punto di vista la Sef Torres sarà davvero avanti, e in quell’impianto si svolgeranno migliaia di partite di calcio, ma anche manifestazioni di ogni genere, non solo sportivo, speso di altissimo livello. Non tutti i dirigenti dei decenni successivi avranno la stessa oculatezza, e dopo avere accumulato quasi un miliardo di lire di debiti – senza neppure riuscire ad andare in serie B e lasciando per strada molte delle altre sezioni sportive – la società negli anni Settanta sarà costretta a cedere l’impianto al comune in cambio di un’iniezione di denaro fondamentale per restare in vita. Oggi, cent’anni dopo quel sabato di maggio, l’Acquedotto-Vanni Sanna è ancora lì, forse non scoppia di salute ma di storia sì. Scusate se è poco.
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