SASSARI. Pilotare la ripresa tra i postumi del covid e i rincari della guerra è una missione quasi impossibile. Far ripartire la macchina produttiva delle imprese italiane è la missione del presidente di Confindustria Carlo Bonomi.

Il dibattito sul salario minimo è al centro del dibattito politico di questi giorni, cosa ne pensa?
«La proposta di direttiva Ue sul salario minimo, di cui non c’è obbligo di applicazione, è pensata per intervenire soprattutto nei Paesi dell’Europa centrorientale, dove i salari sono bassi e la contrattazione debole. In Italia invece la contrattazione nazionale è molto diffusa e anche l’Europa l’ha indicata come modello da seguire e potenziare».

Si può fare quindi e come in Italia?
«Il salario minimo si applica laddove le paghe orarie sono basse, ma certo non è il caso dei Contratti Nazionali firmati dal sistema di rappresentanza di Confindustria. Attualmente si dibatte di un salario minimo orario stimato a 9 euro lordi. I nostri contratti, anche per le basse qualifiche, prevedono cifre ben superiori. Se applicato, va fatto in modo intelligente. La stessa proposta di direttiva indica un livello fra il 40% e il 60% del salario mediano di ciascun Paese. In Italia potrebbe essere più alto del reddito di cittadinanza per spingere le persone a lavorare, ma sotto la contrattazione collettiva, perché questa non sia scardinata».

Pnrr, per come è stato concepito non c’è il rischio che abbia un effetto distorsivo, amplifichi il gap infrastrutturale tra il nord e il sud? Mi spiego meglio al sud c’è anche una maggiore difficoltà a progettare le infrastrutture e a farlo nei tempi imposti dal Pnrr.
«Il Pnrr è un’occasione per il nostro Paese, ma non dobbiamo dimenticare che la maggior parte di quei fondi dobbiamo restituirli. Non è un tema solo della Sardegna o del Sud, ma si tratta di spendere bene e in modo efficiente le risorse per costruire un Paese moderno, efficiente, inclusivo e sostenibile. Considerato il rischio che i bandi vadano deserti a causa dei rincari delle materie prime e considerato che non posiamo permetterci ulteriori indugi sulle riforme, serve un fondo aggiuntivo per attuare il Piano nei tempi previsti. Il Pnrr, infatti, è importante non solo per gli oltre 200 miliardi e le opere, ma per le riforme. Speriamo che le battaglie di bandierine elettorali dei partiti non blocchino il processo riformatore».

L’Italia che produce è realmente ripartita dopo il covid? Quali sono le maggiori difficoltà?
«Lo scenario è fosco. Purtroppo, con la guerra in Ucraina e il rincaro delle materie prime, il rimbalzo si è fermato e le stime sulla crescita del 2022 sono state dimezzate. Il nostro centro studi per quest’anno stima una crescita di circa il 2%, e tutti gli altri istituti stanno rivedendo al ribasso le previsioni. In questo quadro dobbiamo tutti prendere atto che sostenere l’industria, che dopo il Covid ha trainato il rimbalzo, è un fattore di sicurezza nazionale per l’economia, il lavoro e la tenuta sociale. Le imprese hanno assorbito gli enormi aumenti dei rincari di petrolio e gas erodendo i propri margini, ma con un aumento della bolletta che ormai sfiora gli 80 miliardi su base annua, sono indispensabili interventi strutturali. Da una nostra indagine svolta su un campione di imprese associate emerge che oltre il 16% ha già ridotto la produzione. E oltre 1/3 indica di poter continuare soltanto per 3 mesi senza sostanziali sospensioni. Tra due mesi e mezzo, quasi 1 impresa su 2 avrà ridotto la produzione. Ma noi siamo ottimisti perché la nostra industria è forte e ha tutte le potenzialità per farcela. Nonostante tutto siamo la seconda manifattura europea, la settima al mondo».

Costo delle materie prime, costo dell’energia, inflazione, la guerra sembra rendere ancora più complicato fare impresa. Qual è la sua ricetta per evitare che il Sistema Italia collassi?
«Non esistono ricette magiche. Sicuramente la soluzione non è la pioggia di bonus. Non condividiamo misure come quella da 200 euro a 31,5 milioni di italiani: una tantum, con un intervento sugli extra-profitti delle imprese energetiche che resta tutto da verificare nei risultati. Noi abbiamo fatto una proposta dettagliata, un taglio del cuneo fiscale sul lavoro da 16 miliardi concentrato sui redditi sotto ai 35mila euro, che metterebbe in tasca agli italiani 1223 euro, una mensilità in più per tutta la loro vita lavorativa. Aspettiamo una riposta e riteniamo utile che su questi temi si apra un tavolo con il Governo e le parti sociali. Serve una politica dei redditi per il futuro del Paese».

E per il caro energia, un tema centrale per la Sardegna?
«La Sardegna su questo aspetto è penalizzata due volte. In questa fase sta pagando più di altre zone per il gap infrastrutturale e per il fatto di non avere il metano. A livello nazionale ci sono azioni congiunturali da mettere in campo per calmierare l’impennata dei prezzi, ma necessitano con urgenza anche di interventi strutturali. Il nostro Paese paga decenni di immobilismo sul Piano Energetico Nazionale. Serve prima di tutto un tetto al prezzo del Gas e sembra che l’Europa finalmente stia prendendo in considerazione l’ipotesi. Noi lo diciamo da mesi. Per quanto riguarda l’emergenza, è fondamentale allungare i termini degli interventi già adottati, garantendo un orizzonte almeno annuale. Le misure nazionali, pur indispensabili, vanno integrate con iniziative e decisioni a livello europeo. In particolare, occorrono interventi per arginare manovre speculative sui mercati energetici e delle quote di emissione di CO2. Al contempo, in Italia, per raggiungere i target delle fonti rinnovabili previsti dal PNRR e ridurre la bolletta energetica, vanno accelerati i processi autorizzativi e rimane fondamentale la riforma del mercato elettrico».

Si parla di transizione energetica, di rivoluzione verde di energia pulita. Tutti la vogliono ma nessuno è disposto a ospitare parchi eolici o fotovoltaici, continuano a marciare le centrali a combustibili fossili e la strada al nucleare è sbarrata, come le aziende potranno procurare l’energia necessaria?
«La transizione energetica è inevitabile. Possiamo però scegliere come farla. Perché non possiamo sacrificare industrie e posti di lavoro in nome di un’ideologia. Serve una politica industriale che accompagni la transizione. Sapendo che questa costerà un’enormità, oltre mille miliardi al 2030. Non dobbiamo fare gli errori che oggi ci hanno portato a essere sotto scacco, i più fragili dal punto di vista della sicurezza energetica. Bisogna tornare a parlare dell’Italia come un possibile hub energetico del mediterraneo, e in questo le isole, Sicilia e Sardegna avrebbero un ruolo centrale».

La Sardegna riparte ancora più indebolita dopo la tempesta del covid. Anche il settore del turismo, che resta trainante è in forte difficoltà soprattutto nel trovare forza lavoro. Gli stagionali sono diventati merce rara. Qual è secondo lei la causa?
«Esiste un corto circuito per come oggi è strutturato il reddito di cittadinanza, giusto per il suo ruolo di contrasto alla povertà, ma completamente inefficace per la parte sulle politiche attive del lavoro. In Sardegna c’è una fascia di Neet che sfiora il 40% e una fuga dei giovani preoccupante. Ma le imprese non trovano personale. I centri per l’impiego non intercettano nessuno. Noi abbiamo fatto diverse proposte di riforma. Anche qui però vedo che si preferisce non affrontare seriamente il problema. Dobbiamo facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e dare ai giovani una prospettiva di crescita».

In Sardegna si parla anche di emergenza trasporti. L’isola paga in modo pesante questo gap. Il diritto alla mobilità dei sardi è compromesso e anche quello delle merci risente in modo pesante del caos di questo sistema. Con un aggravio dei costi di importazione delle materie prime e di esportazione dei prodotti locali.
«Si è così. La guerra in Ucraina ha solo aggravato la situazione. È un problema questo non solo per i cittadini sardi, ma lo è anche per gli investimenti. La Sardegna avrebbe grandi potenzialità da questo punto di vista, per attrarre investimenti dall’estero, non solo nel turismo. È un’isola iconica, molto amata all’estero. Purtroppo, il gap infrastrutturale è un freno. Anche qui serve una pianificazione strategica mettendo insieme tutti gli attori istituzionali e non disperdere le risorse in mille rivoli o battaglie di campanile».

Da Eurallumina alla chimica verde la Sardegna resta ancora la terra delle mancate promesse, soprattutto per quello che riguarda la sua vocazione industriale e manifatturiera. Secondo lei ha ancora senso insistere su questo tipo di “strategia industriale” o si dovrebbe puntare su altri settori a minore impatto ambientale?
«È una domanda a cui è difficile rispondere. Abbiamo assistito in questi anni a un lento processo di desertificazione industriale della Sardegna, che pure ha dei distretti di eccellenza. I driver di crescita vanno nella direzione del turismo e della sostenibilità, ma io non credo che si debba abbandonare la vocazione industriale. Si può trasformare. Ad esempio, ci sono nuove opportunità offerte dalla digitalizzazione dell’economia, dell’accorciamento delle filiere e delle catene del valore. Anche qui però le infrastrutture sono centrali. Su questo bisogna lanciare un ennesimo grido di allarme, sperando di essere ascoltati».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

URL originale: Read More