La sua voce ha raccontato quarant’anni di cinema, musica, televisione, libri, fumetti. Dal suo microfono hanno parlato le più grandi star. E il suo volto è ancora oggi uno dei più popolari del piccolo schermo, tanto che da anni ha un alter ego su “Topolino”. Vincenzo Mollica può essere considerato la bibbia dello spettacolo italiano, e non solo. Per oltre otto lustri Sanremo, Venezia, Cannes, Hollywood erano casa sua. Da due anni in pensione dal Tg1, il giornalista oggi continua sul web a fare quello che ha sempre fatto: raccontare il mondo.
Mollica, ricorda la sua prima intervista?
«Ero da pochi mesi al Tg1 – mi aveva assunto il direttore Emilio Rossi insieme con Nuccio Fava – e mi avevano mandato agli Esteri. L’allora caporedattore, Ottavio Di Lorenzo, mi disse: “vai a seguire una conferenza stampa con il Dalai Lama”. Andai e verso la fine chiesi di poter fare due domande. Lui fu gentilissimo e mi rispose. Tornai in redazione contento per le due battute ottenute, ma mi fecero fare solo un pezzo di un minuto e mezzo per la notte. Fu comunque un battesimo benaugurante».
Più o meno, quante interviste ha fatto?
«È una domanda a cui non so rispondere, ci vorrebbe un ragioniere dell’archivio Rai. Posso dire che il primo anno feci circa 60 servizi, il secondo quasi 100, il terzo 200 e passa. Da allora tra tg e speciali circa 250 all’anno».
Come nasce la passione per lo spettacolo e la cultura?
«Fin da ragazzo mi sono sempre piaciuti il cinema, la musica, la canzone d’autore, il fumetto, la letteratura, la pittura, la fotografia. E sono felice di poter essere annoverato tra i fondatori del settore Cultura e spettacoli del Tg1 insieme al caporedattore Gianni Raviele per volontà dell’allora direttore Albino Longhi. E per otto anni mi sono diviso tra Esteri e Cultura. Poi nel 1988 presi il posto di Lello Bersani. Ma la prima volta alla Mostra di Venezia risale al 1982, quella a Sanremo l’anno precedente: per quel servizio di “Prisma” andai a intervistare Indro Montanelli e Gesualdo Bufalino. E nel 1983 feci il primo speciale sul fumetto».
Dagli anni Ottanta al 2020, quattro decadi da protagonista: cosa le accomuna?
«Se dicessi che non sono diverse farei un torto alla storia, ma sono tutti decenni che hanno camminato con grande velocità. Dagli anni Sessanta il tempo tra presente e futuro si è molto accorciato. Credo che la caratteristica comune di questi quarant’anni sia l’accelerazione verso il futuro».
Trentanove Sanremo: cosa rappresenta la settimana del festival per gli italiani?
«In realtà, sono 40 con il mio ologramma dal balconcino voluto da Rosario (ride, ndr). Sanremo è una grande festa popolare, una festa della musica che ancora oggi – lo abbiamo visto anche in questi anni con Amadeus – riesce a unire l’Italia davanti alla tv e ora anche al web. Quando Pippo Baudo insieme a Pippo Caruso si inventarono la sigla “Perché Sanremo è Sanremo” volevano dire proprio quello: di una festa che mette allegria non bisogna chiedersi il perché».
L’edizione più bella?
«Ognuna ha portato con sé cose particolari. Mi hanno colpito molto le presenze. Quando arrivò Vasco Rossi. O Paul McCartney e pochi giorni dopo George Harrison: noi tutti speravamo in una reunion che non ci fu. Tante canzoni sono partite da lì. Penso a “Vita spericolata”, “Il ragazzo della via Gluck”, allo stesso Mimmo Modugno di “Volare”. La storia del nostro Paese si specchia nel festival di Sanremo. Una città che per me è stata importante anche per il Club Tenco. Andai per la prima volta nel 1976 e lì ho avuto la fortuna di incontrare Conte, Guccini, De André e trascorrere con loro ore indimenticabili».
Sanremo o Venezia: quale festival aspettava di più?
«Erano sempre tutti momenti importantissimi da raccontare da cronista. Come anche gli Oscar. Erano tutti avvenimenti legati all’attualità, da seguire senza distrazioni, super concentrati. Tutti eventi che ogni anno portavano sostanza e novità. Ogni festival ha la sua forza. Il più pirotecnico sicuramente gli Oscar: una vetrina mondiale che in tre ore vede passare la storia del cinema».
Servizi in Sardegna?
«La cosa più importante uno storico Tv7 con De André. Erano sette anni che non parlava con la tv, gli chiesi una intervista e il suo ufficio stampa mi disse di mandare le domande. Dopo venti giorni la risposta: “vieni a Tempio Pausania”. Arrivammo con l’operatore e alla Agnata c’erano Fabrizio e Dori. Lui volle che ambientassimo l’intervista in varie zone della Sardegna. In quella casa meravigliosa mi fece capire l’importanza delle etnie sarde, della cultura sarda, e anche della gastronomia sarda. La prima sera che arrivai ci sedemmo a tavola alle 10 di sera e ci alzammo alle 4 del mattino».
E l’indomani dovevate fare l’intervista…
«Raggiungemmo un altipiano con la jeep e lì successe una cosa curiosa. Mi disse: “fammi le domande esattamente come me le hai mandate”. Per fortuna le avevo imparate bene e così feci. Ma a metà della sua risposta la telecamera si inceppò e dovemmo ricominciare daccapo. Rifacemmo la scena e lui mi rispose con le stesse parole della prima risposta. Le aveva imparate a memoria. Mi disse: “ho pensato bene a quello che devo dire, voglio che sia una intervista che rimanga nella mia storia”. E in effetti ancora oggi è tra le più citate».
Migliaia di interviste a migliaia di personaggi: quelle che porta nel cuore?
«Tutte quelle che ho fatto con Federico Fellini, Roberto Benigni, Fiorello, i grandi cantautori come Francesco Guccini, Paolo Conte e Lucio Dalla. E Andrea Camilleri e Alda Merini».
Sono nate anche amicizie.
«Il grande regalo che mi hanno fatto questi artisti. È stato fondamentale per me stesso e per come dovevo fare il mio lavoro».
C’è qualcuno che non è mai riuscito a intervistare?
«Solo due ma ho avuto comunque la fortuna di conoscerli: Bob Dylan e Mina».
Proietti, Carrà, Milva, Battiato, Vitti, Spaak: con la loro morte sembra finita un’epoca. E il mondo dello spettacolo di oggi appare molto diverso.
«Nell’arte c’è sempre una evoluzione. Le espressioni artistiche nella musica, nel cinema si evolvono. L’importante è che si vadano sempre a ricercare i talenti, che si abbiano le antenne giuste per capire cosa sta succedendo. Ogni epoca ha i suoi artisti, che spesso vengono riconosciuti dopo: pensiamo a Van Gogh, Modigliani, Picasso».
Aldo Grasso coniò il termine “mollichismo” perché, sosteneva, che lei parla sempre bene di tutti: le diede fastidio?
«È giusto che un professore come Grasso esprima il suo pensiero ed è mio dovere di cronista ascoltarlo, riflettere e capire che magari quello che scrive è importante. Non me la sono mai presa con le critiche, le ho sempre accolte con attenzione, cercando di trarne del buono anche in quelle occasioni».
Ha mai avuto la tentazione di passare a Canale 5?
«Mi è stato offerto ma stavo bene alla Rai. Il Tg1 l’ho sempre considerato un sentimento, come l’essere giornalista. E l’amore per mia moglie e mia figlia. Io non ho mai frequentato cenacoli. La mattina uscivo di casa per andare a lavorare e la sera rientravo per cena. Nel 2023 con Rosa Maria facciamo 50 anni insieme: ci siamo conosciuti alla Cattolica di Milano e ci siamo fidanzati dopo un concerto di Gaber. E 50 anni dopo risvegliarsi ogni mattina insieme è un piacere».
Grande appassionato di fumetti, cosa provò quando su “Topolino” apparve per la prima volta Vincenzo Paperica?
«Una delle mie più grandi soddisfazioni. Diventare un fumetto per opera di Giorgio Cavazzano e vivere le storie con Paperino, zio Paperone, Qui Quo Qua. A seconda della storia ero giornalista di Telepaperopoli o di Papersera. Ma sono stato anche artisticamente spalla di Marcello Mastroianni in un fumetto di Milo Manara con Fellini. Marcello non ne sapeva nulla, lo scoprì dalla figlia Chiara che lo aveva visto in Francia. Io sono sempre stato convinto che il fumetto sia arte. E infatti ho dedicato collane a Crepax, Pratt, Battaglia, Manara e Pazienza».
In pensione da due anni: cosa le manca di più?
«Nulla, perché continuo a fare il mio lavoro. Ho sempre qualcosa da fare, da raccontare. Io sono un apprendista pensionato, perché bisogna imparare a fare i pensionati. È il momento della vita in cui ti riavvicini all’infanzia. Ma se ti dicono che sembri un giovanotto vuole dire che ti sei rincoglionito (ride, ndr)».
C’è in tv un erede di Vincenzo Mollica?
«Ognuno deve seguire il proprio talento. Ci sono tanti colleghi che sanno fare il loro lavoro, che devono avere la possibilità di esprimersi come l’ho avuta io. Ho sempre lavorato con passione, curiosità e fatica e a fine giornata ero contento e soddisfatto di quello che avevo fatto».
Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage
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