ASINARA. «A quell’epoca non c’erano mica i cellulari, e io ero in ferie, in barca a vela, nelle acque di Budelli. Per rintracciarmi hanno dovuto fare un bel giro di chiamate ai parenti, e quello non era un buon segno». Era il 13 agosto 1985 e Franco Massidda, direttore del carcere di massima sicurezza dell’Asinara riceve una chiamata dal suo vice. Aveva un tono concitato: «Direttore, non le posso dire nulla, ma deve rientrare immediatamente. Ordini dall’alto». «Quanto in alto?». «Molto». Vacanze terminate, rotta verso l’Asinara, bonaccia, e 10 ore di navigazione. «Tra me e me pensavo: vuoi vedere che è evaso Cutolo? Cosa diavolo sarà successo? Così ho preso la radio e ho chiamato le frequenze del carcere. «Parlo, io, voi ditemi solo sì o no: è morto qualcuno?». «No». «È andato via qualcuno?». «No». «È arrivato qualcuno?». «Sì». «Che livello?». «Il massimo».
Franco Massidda in barca tiene sempre una giacca e una camicia, così si leva i calzoncini, si sbarba, e quando la sera del 14 agosto, dopo un’estenuante traversata approda a Cala d’Oliva, è già in veste istituzionale. «Ora mi dite chi cavolo è venuto?». Si avvicina il capo di gabinetto del ministero di Giustizia. «I magistrati Falcone e Borsellino e le loro famiglie da oggi staranno all’Asinara e saranno sotto la sua tutela». Da alcune soffiate si era scoperto che la mafia stava organizzando degli attentati e loro, che studiavano gli atti del maxi processo, erano nel mirino. L’isola poteva essere il rifugio più sicuro. Li avevano prelevati d’improvviso, la figlia di Borsellino era al compleanno di un’amichetta, gli altri dai nonni. Li avevano messi dentro un aereo militare come un pacco postale, e catapultati all’Asinara senza nemmeno le valigie.
«Ci incontriamo nella foresteria, erano undici, grandi e bambini, tutti in piedi, con delle facce terree. A me spettava il compito di rassicurarli». Solo che nell’isola carcere c’erano 500 detenuti a zonzo, compresi i siciliani, e questo non era molto confortante. «Non vi preoccupate, i siciliani li trasferiamo tutti a sud, a Fornelli, a due ore di distanza a piedi». La moglie di Falcone era la più attenta, memorizzava ogni dettaglio. «Ho chiesto: avete delle armi con voi? Dovete consegnarmele». Falcone è perplesso, per un attimo incrocia lo sguardo di Borsellino, poi dice: «Non mi sono mai separato dalla pistola in vita mia. È proprio necessario?». E lo dice davanti ai bambini, con grande naturalezza, come se la paura di essere ucciso facesse parte del kit base di un magistrato.
«Alla vostra incolumità pensiamo noi. Questo posto è sicuro e può essere anche un piccolo paradiso. Approfittate per godervi questa natura». La loro base è la foresteria, la così detta “casetta rossa”. È ancora così, e in questa giornata di sole di fine maggio è la prima costruzione che noti quando sbarchi a Cala d’Oliva, perché tutte le altre case intorno sono bianche. Una bella pennellata di colore. Dall’attracco dista cento metri. Si affaccia sul mare, sotto c’è ancora la spiaggetta “privata” dove le due famiglie facevano il bagno. Un uomo, si sta rosolando al sole. Tutto, all’esterno, è rimasto uguale: la facciata, la ringhiera un po’ arrugginita. Ma la “casetta rossa” ora è diventata la caserma del Corpo Forestale, e la stanza dove Falcone e Borsellino leggevano i faldoni, è un piccolo museo dei ricordi. Ci sono tante foto: i magistrati con gli agenti del penitenziario, Paolo Borsellino e la moglie Agnese abbracciati nella terrazza, le immagini del maxi processo, le lettere dei figli di Borsellino, i pensieri dei bambini delle scuole.
«Come corpo Forestale – dice il comandante del nord Sardegna Giancarlo Muntoni – stiamo onorando i due magistrati cercando di mantenere vivo il loro ricordo nel luogo dove, con grande sacrificio, hanno istruito il maxiprocesso. Abbiamo deciso di creare quel piccolo museo e di metterlo a disposizione di coloro che vogliono visitarlo, per capire e toccare con mano i luoghi in cui la mafia venne sconfitta dai due giudici».«In quella stanza il fumo si tagliava a fette. Lavoravano sulle carte senza sosta, anche dopo cena, e tiravano avanti sino alle tre del mattino, e poi l’indomani alle 8, erano già in piedi». Gianmaria Deriu, nel 1985 aveva 27 anni, ed era brigadiere agente di custodia. Il direttore Massidda gli aveva affidato il compito di vivere a strettissimo contatto con i magistrati, quasi un angelo custode, ed era l’unico che dormiva nella foresteria. All’inizio c’era anche un cuoco, ma quando Falcone aveva saputo che era un detenuto, non era troppo entusiasta di assaggiare i suoi piatti. Quindi l’avevano sostituito con un’altra guardia che si arrangiava ai fornelli. A dire il vero c’era anche un vicino di casa sgradito: era Raffaele Cutolo, rinchiuso in una cella in isolamento a 200 metri di distanza, che la sera cantava le melodie napoletane. «Ma proprio accanto a questo dovevate sistemarci?».
La foresteria però era un piccolo bunker affacciato sul mare: sorvegliata dai militari in borghese ai quattro lati, alcuni con la Nuova Sardegna in mano e il mitra nascosto tra le pagine. Una motovedetta a pattugliare Cala d’Oliva. E poi altre sentinelle e tutta la zona blindata ai detenuti e ai residenti del borgo. È bastata una settimana perché il clima si rasserenasse e perché la bellezza dell’Asinara conquistasse tutti. Solo Lucia, la figlia di Borsellino, soffriva di questa “felice detenzione”, e continuava a dimagrire. I bambini e le mamme ogni giorno andavano nella spiaggetta privata, e tra le guardie e i magistrati si instaura confidenza. «Un giorno Falcone mi ha offerto un sigaro – racconta Gianmaria Deriu – per me era la prima volta, ma non mi andava di rifiutarlo. Così, ingenuamente ho aspirato, e devo essere diventato viola. Ho iniziato a tossire e Falcone è scoppiato a ridere. In quel momento ogni barriera si è rotta, siamo diventati amici». Manfredi, che aveva tredici anni, era così vivace da aver bisogno, da solo, di almeno tre guardie del corpo.
«Un giorno gli ho fatto provare la mia moto Morini 150 – dice Deriu – all’inizio era incerto, poi con quella moto smarmittata è stato l’incubo del villaggio». Ogni domenica, invece, c’era la gita in barca a Sant’Andrea, al timone il direttore del carcere Massidda: «Era la loro spiaggia preferita. Pranzo al sacco, o porcetto o pesce. Alle volte mi immergevo con un cacciavite e prendevo delle ostriche. Erano piccoli momenti di serenità, di vita normale, in una parentesi molto difficile per queste due famiglie». Poi d’improvviso, così come erano arrivati, sono volati via. Un dispaccio dal Ministero, non c’è più pericolo di attentati, e un elicottero li riporta a casa. «Di loro mi resta quel senso di onestà e amore per lo Stato – dice Gianmaria Deriu – ho avuto la fortuna di conoscere due persone speciali».
Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage
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